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“E’ questione di sguardi”, intonava Paola Turci in una celebre canzone uscita agli albori del nuovo millennio, raccontando uno scambio di occhiate complici, maliziose e laide tra due innamorati, pronti a cogliere il frutto dell’attrazione senza preoccuparsi del futuro, una storia d’amore destinata a sbocciare e fiorire in un prospero futuro insieme oppure a esaurirsi istantaneamente nell’impeto irrefrenabile della passione, appassendo in poche ore come uno splendido fiore.

 

 
Anche a San Siro gli sguardi hanno giocato un ruolo fondamentale: incrociati, sostenuti, fugaci, hanno caratterizzato la serata europea del Milan; occhi che descrivono perfettamente il momento dei rossoneri molto più efficacemente di tante e vuote parole.

Come lo sguardo arrabbiato di Boateng, deluso per l’ennesima prestazione stagionale ben al di sotto degli standard a cui aveva abituato l’esigente pubblico rossonero, contrariato per i fischi ricevuti da San Siro e per la sostituzione che lui, solo lui, giudicava forse eccessivamente prematura. 

Come lo sguardo incredulo e torvo del tifoso milanista, che non riesce ad accettare il frutto del ridimensionamento perpetrato dalla società, non riesce a tollerare una squadra che non merita di calcare un prato che ha visto esibire, con quella maglia, fuoriclasse di livello mondiale.

Come lo sguardo ostile e rancoroso di Mexes, che risponde con un gesto poco elegante alla contestazione rumorosa e legittima di San Siro.

Come gli sguardi attoniti, perplessi e colpevoli di Flamini, Pazzini, Emanuelson, Nocerino, tutti protagonisti dell’ennesimo capitolo deludente di un noioso e scadente romanzo incapace di soddisfare il lettore e appassionarlo nel prosieguo della lettura.

Anche altri sguardi hanno contraddistinto la giornata di ieri: quelli sereni, soddisfatti, allegri, rilassati ed orgogliosi di Ibrahimovic, Thiago Silva ed Ancellotti, splendidi protagonisti, in periodi diversi, del Milan dei campioni, quello vincente, quello che meritava rispetto ed apprezzamento in tutta Europa, non quello deriso e dileggiato da avversari di infimo livello.

E poi c’è quello di Allegri (tranquilli, non mi ero dimenticato di lui). Uno sguardo pensieroso, forse preoccupato, figlio di una situazione sempre più difficile da gestire e controllare. Come un’equilibrista, si destreggia sull’orlo del baratro, destinato però a precipitare nel vuoto, nell’oblio riservato solo allo sconfitto, un ultimo e definitivo passo falso che sembra ineluttabilmente destinato a commettere. Tassotti, Inzaghi, Tassotti e Inzaghi: il nome del successore ha ben poca importanza; l’allenatore, prima che un motivatore, prima che un tattico, deve essere un perfetto, diligente ed ossequioso capro espiatorio, figura di cui il Milan, soprattutto quest’anno, ha estremo bisogno. Ma qualcosa deve essere fatto, o meglio, doveva essere fatto. A Luglio, sicuramente ad Agosto, programmando e strutturando un mercato finalizzato al potenziamento della squadra e alla costruzione di un gruppo competitivo, da allestire con tempismo ed anticipo e non schiavo dell’improvvisazione e dello smantellamento. Ma così non è stato, e adesso è tardi, troppo tardi. Ovvio dirottare tutte le responsabilità su Allegri, è un gioco da ragazzi. Lui è pronto a pagare per tutto, per tutti. E’ così che deve andare e così andrà, con buona pace di tutti.